Ho aspettato a scrivere in questo periodo con la speranza di poter comunicare la buona notizia “della luna piena”, della conferma della sentenza di non colpevolezza e l’annuncio definitivo del mio rientro in Italia…, ma bisognerà aspettare ancora un po’: queste pratiche giudiziarie, infatti, richiedono più tempo del previsto. E’ solo questione di pazienza, ma tutto arriverà e spero potremo rivederci presto in Italia.
Intanto la vita qui a casa continua e sta riprendendo il suo ritmo quotidiano, tra confusione, errori, distrazioni, dimenticanze, gioie, delusioni e nascite, battesimi, compleanni, visite a tutte le ore in ospedale, corse, sospensioni e nuovi arrivi, fine delle piogge, sensazione dei primi freddi, piante di pruno che fanno i fiori fuori stagione, sprazzi di vita comunque che rendono la nostra esperienza normale, con una valenza di umanità bella e sofferta.
Non posso nascondere che nel mio animo è ancora ben viva la piaga dei mesi duri passati e che sento il bisogno urgente di un riposo e di uno stacco per ritrovare la serenità e la lucidità. E dimenticare tante cose, tante brutte esperienze, l’assurdità di accuse senza fondamento che hanno trovato modo di prosperare incredibilmente in animi poco scrupolosi...
Ma c’è stata pure la Pasqua, qui nella nostra casa, una Pasqua –come energia e spinta imperturbabile di bene definitivo- che ci ha accompagnati sempre, a dire il vero, durante tutti questi mesi, grazie all’affetto e alla partecipazione di tutti.
Una Pasqua che ci ha visti festeggiare nel salone della nuova scuola il battesimo di 15 dei nostri bimbi (includiamo tra questi bimbi chi bimba non è più, Agustina, la mamma di Evelin, che ha desiderato pure lei essere battezzata, accompagnata nella sua emozione dai carissimi Giovanni e Giulia). Mi immagino quante parrocchie conosciute, in Italia, sarebbero oggi orgogliose di poter festeggiare in un colpo 15 battesimi!
Una Pasqua preceduta e seguita da nuove nascite di bimbi e bimbe che non hanno ancora un nome ma che in modi diversi sono accolti nella nostra grande famiglia: la sorellina di David, il figlio di Ramona/Giovanna, il piccolo denominato Mateo, che è in ospedale. Per ognuno di questi bimbi si apre l’incognita del futuro, per le avverse condizioni, sia di salute che delle rispettive madri. La cosa strana, infatti, è che di ognuno di questi bimbi non conosciamo assolutamente il padre.
Tra le nascite, originali, di questo periodo, dovremmo pure sottolineare quella di Jacky, che tra poco compirà 12 anni, e che noi conosciamo da 6, e che per la nostra casa rappresenta una vera e propria nascita con tutto lo scompiglio che provoca in ogni istante, con la sua originalità, la sua bellezza, la sua malattia e i suoi attacchi. Ieri mattina la dottoressa ci ha letto il suo encefalogramma: ogni 10 secondi, un attacco, uno sparo ingiustificabile dentro il suo cervello di bimba.
Jacky è qui, nella nostra casa, lei la cui vita è un mistero per tutti, ma che sappiamo riconoscere come un dono del cielo, tanto per aiutarci a non rendere monotona la vita della nostra casetta. Con un certo spirito burlesco, qualcuno ha commentato che ora c’è la radio sempre accesa dentro queste mura (e anche fuori!).
... L’altro giorno sono andato a trovare un ragazzo che vive da 14 anni, da quando è nato, in un letto, praticamente abbandonato. Non parla, è cieco, non si gestisce da solo. Una nonna, anziana, spesso ubriaca, è l’unica persona che si incarica di lui.
Wilson è il nome di questo ragazzo che da vive da 14 anni la sua vita in un letto, senza contatti, in una stanza vecchia e brutta, in un paesino di campagna, sperduto tra le colline, a un’ora da Cochabamba.
Mi ha impressionato l’incontro con lui: quella stanza di fango, povera e sporca, il suo volto coperto di mosche, le sua mani che non si tendevano, la nonna che non sbiascicava neanche una parola in spagnolo.
Alle spalle del letto un poster del film “La passione” con una frase in grassetto: “Yo pienso en ti, ci penso io a te”.
Ci penso io a te, mi è sembrato il programma per la vita di ognuno di noi. Noi siamo fortunati perché c’è qualcuno che pensa a noi, magari senza che ce ne rendiamo conto. Ma siamo ancora più fortunati se possiamo pure noi pensare in qualcuno, che magari ha meno di noi, è meno fortunato di noi, soffre più di noi.
In questa frase ci vedo –forse con un po’ di superbia- il programma della Casa de los niños.
Senza ragionarci su troppo, abbiamo preso l’impegno di portare Wilson fuori da quelle pareti e nei prossimi giorni troveremo una sistemazione degna pure per lui. Parlando di lui, mi diceva giorni fa Matilde (Matilde è la mamma di Wara. Non ha ancora 30 anni, ha l’AIDS come la sua figlia, si prende cura giorno e notte tre ragazzini, fratelli, colpiti da distrofia muscolare): “Come non ricevere Wilson qui da noi? Io sono cresciuta in orfanatrofio, ho sofferto l’abbandono, la morte di mio marito, sperimento nella mia carne la piaga di una malattia crudele, ma ce n’ho ancora di forze e non possiamo lasciare un ragazzino da solo, abbandonato in un letto. Ne curo già tre, oltre a mia figlia, ma ne posso curare uno in più, che soffre più di me. Basta aggiungere un letto in stanza e non fare tante storie!”
Yo pienso en ti.
E’ un’altra tappa dell’avvenutura della nostra casa, non perché siamo bravi o perché ci sentiamo eroi. La debolezza che sperimentiamo ogni momento ci dà il coraggio di aprirci a chi è meno fortunato di noi e mantiene vivi i nostri sogni e li condividiamo perché non vincano i nostri problemi, perché nel fondo basta aggiungere un letto in stanza e condividere le forze che abbiamo, raccogliendo con commozione il mistero di chi pur nella sofferenza, nel dramma corre il rischio di farsi vicino a chi è solo, abbandonato, ammalato, piccolo, povero e sporco, ma davvero e sempre fratello nostro, sorella nostra.
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