domenica 11 dicembre 2011

Don José: ovvero un personaggio speciale della nostra casa, della nostra cittadella

Stamattina è venuta un’amica a trovarci qui a casa. Mentre attraversavamo il cancello, abbiamo incrociato don José che stava uscendo per andare in città, cosa che fa abitualmente ogni mattina. “Ma io conosco quel signore!”, ci ha confessato più tardi questa amica. “Lo vedevo spesso ai crocicchi delle strade e mi sembra che non andasse per buon cammino. Era sempre insieme ad altre persone strane, conosciute in città come gli "antropologi" perché vivevano in antri, in spazi bui e sporchi di Cochabamba. Ma com’è cambiato! Mi sembra che stia molto meglio”.

Ha proprio ragione questa nostra amica: Don José è cambiato!

Innanzitutto, a scanso di equivoci, non bisogna confondere Don José con il Padre José. Entrambe vivono qui con noi, entrambe sono anziani ed entrambe sono personaggi speciali della nostra cittadella, ma solo Padre José è sacerdote mentre Don José è semplicemente José, un signore di 65 anni che è capitato qui da noi “scaricato” dall’ospedale pubblico nel settembre dello scorso anno, insieme a Pablo. Erano ricoverati nella stessa stanza di ospedale, per lo stesso problema, ma -diciamo la verità- non si sopportavano. Così dall’ospedale, a un certo punto, hanno pensato bene di mandarli tutti e due da noi: Pablo per finire i suoi giorni, dato che era in fin di vita, e Don José per sbarazzarsene, dato che nessuno lo voleva. E noi, quella volta, non avemmo scelta: scesero praticamente insieme dall’ambulanza e dovemmo sistemarli in due stanzette vicine. Pablo, come sappiamo, si è ripreso benissimo ed ora vive in un’altra casa, mentre Don José è rimasto –da solo- qui nella sua stanzetta, e non bisticcia più, di nascosto, con Pablo.

Noi non conosciamo bene la storia di Don José. Sappiamo della sua malattia che è la stessa di Pablo e di tanti altri che vivono qui con noi. Ma questo non ci spaventa. Non sappiamo dove e come lui si è beccato quella malattia. E neanche questo ci interessa o ci preoccupa. Sappiamo che Don José ha vissuto gran parte della sua vita in strada, mantenendosi dignitosamente grazie alla sua gran dote di suonatore di charango. Esce di casa, ogni mattina, con il suo strumento a tracolla e il cappello a larghe tese, che ben caratterizzano e contribuiscono alla sua figura di artista bohemio. Dal settembre dello scorso anno, non è più tornato in ospedale. Sta bene. Prende le sue medicine ed ha un posto stabile dove rifugiarsi, non più gli antri bui e sporchi della città. Non è più un peso per noi, Don José, una persona che “siamo stati obbligati ad accogliere”. Alla sera arriva a casa, entra con un sorriso sornione in cucina, riempie la sua caraffa d’acqua e ci chiede permesso per poter vedere un po’ di televisione. Sono le famiglie della cittadella che in questo momento di incaricano della sua cena. Lui si muove in silenzio e quasi non ci accorgiamo della sua presenza o assenza.

Parlo stasera di Don José perché mi ha commosso un particolare.

Alcune settimane fa sono finite le lezioni e, come conclusione, ogni classe, accompagnata dalla maestra rispettiva, ha rappresentato un pezzo artistico, davanti a tutta la cittadella, visto che i genitori degli alunni vivono quasi tutti qui con noi.

A qualcuno, non so a chi, è venuto in mente di invitare, come ospite, anche Don José con il suo charango. Proprio un bel gesto. Quando si è presentato davanti a tutti i bimbi con il suo fedele strumento e i suoi stivaloni da “vaquero”, è scoppiato un applauso di simpatia impressionante. E quando ha cominciato a suonare, tutti ci siamo messi ad applaudire, accompagnando con il palmo della mano i suoi ritmi.

Era notte e probabilmente nessuno ha visto, in quella oscurità, gli occhi lucidi di Don José (chissà: forse Dennis sì...).

... Ed io mi sono commosso al pensare:

... una persona anziana, sola, di 65 anni, con una vita difficile alle spalle, trascorsa come emarginato in strada, con una malattia dura nel corpo e nella psiche, una persona scartata dalla società, una persona senza futuro, una persona catalogata come persa, e scaricata per caso e per pena nella nostra cittadella...

... don José –quella sera- davanti a tutti i nostri bambini, strappando dal suo charango le note di una musica di riscatto.

... don José –quella sera senza cappello - protetto –sopra- dal cielo stellato, stupito e recettivo pure lui nell’ascolto di una magica melodia...

... don José –quella sera- invitato e protagonista senza ostentazione di una speranza che soffia dal cuore della nostra cittadella. Cadono le barriere. Si superano le distanze e i preconcetti. Vince la simpatia.

... dalla finestra magica della nostra casetta, riusciamo a volte a cogliere archi di luminosa unità e il sentiero raddrizzato di storie difficili. Anziani e bambini che suonano, che cantano e che ballano. Malati e sani che sorridono con normalità al ritmo di una vita riordinata insieme.

... la nostra cittadella è un piccolo campionario di gente debole che sta cercando un proprio cammino di utopie e di proposte di ricomposizione.

... abbiamo intrapreso percorsi non sempre trasparenti nella vita: esporci davanti all’innocenza dei nostri bimbi -il tesoro della nostra cittadella!-, ci purifica e ci sprona.
Mi sono emozionato davanti a Don José perché ho visto il dono che rappresenta la nostra cittadella: spazio aperto di incontro e di speranza, di illusione e di rinascita.

Come non sentirci fortunati?





domenica 4 dicembre 2011

Sulla strada ...

La settimana scorsa, mentre distribuivamo la cena calda agli amici/amiche che vivono in strada, sono rimasto colpito da due piccoli particolari. Una parentesi: questo messaggio consente alcune premesse. Innanzitutto, il servizio che sin dall’inizio portiamo avanti con questi amici/amiche risulta sempre un’esperienza profonda che ci arricchisce tanto. Un’esperienza che è maturata nel tempo e che porta molti frutti. Un’esperienza di amicizia e condivisione che non abbiamo inventato noi ma che ci hanno insegnato i nostri primi amici e amiche boliviani: questo è bene tenerlo presente sempre! Prima distribuivamo panini con una bevanda calda. Ora siamo un pochino più raffinati, dobbiamo ammetterlo: quasi una cena coi fiocchi!

E poi, approfittiamo di questa occasione per ringraziare tutti quelli che in silenzio –e senza conoscerci personalmente, come i medici di cui parlavamo nel messaggio precendente- ci danno concretamente una mano per rendere possibile e sempre più curato questo bel servizio. Noi ci consideriamo fortunati perché in questi anni abbiamo visto tanti ragazzi ritornare presso le loro famiglie uscendo dal tunnel della strada che per molti è ancora oscuro, molto duro e senza uscita.

Ci consideriamo fortunati perché le famiglie della cittadella adesso si preoccupano di portare avanti con semplicità questo servizio e lo fanno con molto affetto e dedicazione e con tanta simpatia verso le persone che incontriamo la sera. Conoscono i nomi di questi tutti e persino il giorno del compleanno! Non si tratta, dunque, di persone anonime da attendere in fretta per poi dimenticarsi di loro, no! Sono persone che si desidera incontrare per consolidare un’amicizia semplice che ogni settimana si rinnova.

A proposito di questo servizio, nei giorni scorsi ho sentito il commento di un’autorità locale che diceva che noi, portando la cena calda, incentiviamo la pigrizia di queste persone che dovrebbero invece andare a lavorare per guadagnarsi il pane di ogni giorno. E’ un discorso che ha una logica che molti possono condividere. Io non la condivido e neppure la critico. Io, infatti, non conosco la storia di tutte le persone che abbandonano la propria famiglia e si rifugiano in strada riducendosi a una vita difficile e con poche speranze per il futuro. Per questo non me la sento di giudicare nessuno e neppure di avere la certezza su quale sia il miglior atteggiamento per avvicinarsi a loro. Noi non andiamo la sera a fare un’opera di carità verso le persone che dormono in strada. Noi andiamo a visitare alcuni dei nostri fratelli e delle nostre sorelle meno fortunati di noi per condividere con loro un’esperienza di solidarietà e vicinanza. Noi pensiamo che si tratta di una cosa buona e per questo continuiamo a farlo. Con certezza sappiamo che a tanti di noi fa bene questo gesto.

Dicevo prima che in genere troviamo la sera sempre le stesse persone, ma a volte si aggiungono incontri nuovi perché le circonstanze ci portano a fare un percorso diverso o perché nuove persone scegliono ogni settimana la strada.

Mercoledì scorso siamo passati in fretta per un viale principale di Cochabamba. Anni fa era un posto di ritrovo comune per tutti i ragazzi di strada e distribuivamo tanti panini e latte caldo. Ora, invece, la polizia si è incaricata di “ripulirlo” dal momento che è il luogo principale di ritrovo della “gente bene” della città. Siamo passati di lì per raggiungere in fretta la piazza. Però, mentre passavamo abbiamo visto un signore solo, seduto su una panchina, con un umile fagotto in mano. Ci siamo fermati nonostante il traffico e abbiamo offerto pure a lui la cena calda. Il signore ci ha guardati stupito e ci ha ringraziati con calore.

Mi ha colpito questo suo grazie così sincero... Era proprio contento di ricevere un piatto caldo! Un piatto semplice, a dire il vero, a base di riso e carne, non come i piatti costosi ed elaborati che si vendono nei ristoranti di quel viale importante. Ma un piatto condiviso gratis, con affetto dalle nostre mamme e dai nostri papà. Quella mano in alto, in segno di saluto e ringraziamento mentre ci allontanavamo con la camionetta, di quel signore solo su una panchina, in quel viale importante dove le coppiette pavoneggiano felici i loro amori, mi ha fatto bene e mi si è impresso nel cuore. Forse rivederemo quel signore la prossima settimana o forse no, ma quel gesto mi ha convinto una volta di più che l’amore non si nutre di ragionamenti contorti ed elevati.

L’amore cresce con i semplici gesti dell’amore.

Arrivati in piazza abbiamo trovato tanta gente ad aspettarci. Qualcuno di noi ha portato il piatto a una signora anziana e cieca che chiede ogni sera l’elemosina dietro l’angolo della piazza. Devo confessare che non conosco il suo nome. Io sono passato per caso davanti a lei mentre ero di ritorno e ho avuto modo di fermarmi a contemplare per un attimo questa signora cieca.

Ho visto che ha tirato fuori dalla sua borsetta un cucchiaio di metallo (noi distribuiamo con materiali di plastica), l’ha strofinato per pulirlo con un fazzoletto, ha fatto il segno della croce e si è messa a mangiare con una calma impressionante, come se volesse gustare ogni chicco di riso. Forse vale la pena ricordare che i ragazzi di strada divorano letteralmente in un attimo un piatto che è una montagna di cibo!

Ho visto in quella anziana la solennità di ogni suo gesto, il piacere di gustare ciò che era per lei, come se fosse solo per lei. Isolata del resto del mondo, concentrata solo su quel piatto! Lei non mi vedeva, come non vedrà mai il volto di chi le ha preparato la cena e di chi gliel’ha offerta. Ma lei sentirà sempre nelle sue mani il calore di quel piatto. Lei percepirà con il palato la bontà di chi l’ha cucinato. Allora, davanti alla bontà, non c’è né spazio nè tempo per la fretta. Ogni istante deve essere vissuto con calma e con solennità.

Mi viene da pensare che la vita deve essere gustata e assaporata con la stessa intensità, calma e solennità con cui quella signora gustava il piatto preparato per lei. Quel piatto era un dono semplice; senza dubbio l’aveva capito quella donna cieca. Anche ogni istante della nostra vita è un dono semplice che riceviamo tra le mani magari senza sapere il perché o da chi ci viene offerto.

Spesso siamo frettolosi e vorremmo anticiparci al domani. Ho imparato dalla quella signora anziana e cieca che tutto è dono da assaporare: tutto, proprio tutto, anche un gesto insignificante. Sono ora io a ringraziare questa signora anziana e cieca, di cui non conosco il nome, che almeno per un attimo mi ha insegnato a vedere e a cogliere il senso profondo e solenne anche di piccoli particolari della vita.