Casa de los Niños, Bolivia, 12 novembre 2014
Stanotte non risuona la voce di Macaria lungo i corridoi della nostra casa...
La sua breve vita di donna e di mamma si è consumata stamattina alle 8 in silenzio, in presenza di Giulia e Pablo, mentre noi stavamo dando la colazione agli altri bimbi.
Siamo stati compagni di viaggio durante 21 giorni, coltivando ingenuamente la speranza di un possibile ricupero della sua salute.
Non sono stati giorni facili: storie troppo diverse, le nostre, che si sono incrociate solo perché gli ospedali pubblici non hanno accolto un corpo in sfacelo per l’AIDS. Noi le abbiamo aperto la porta di casa e con il passare dei giorni ci siamo avvicinati a questa mamma, impegnati nel tentativo di sfiorare i segreti del suo umile mondo, sfidando una malattia con cui conviviamo da anni, ma che spesso si fa beffa delle nostre illusioni.
Non si fa poesia davanti a un corpo che si consuma inesorabilmente.
Solo domande soffocate dal dolore e piccoli gesti di affetto, gesti forse insignificanti e che passano inavvertiti, ma probabilmente sono quelli che sorreggono le pareti della nostra esperienza quotidiana: un bicchiere d’acqua, una preghiera, uno sguardo affettuoso, una carezza sul volto, una spazzolata ai capelli ormai sciolti.
Poche parole scambiate al volo anche per l’incomprensione del linguaggio tra i suoni che fanno fatica ad uscire da una bocca quasi chiusa per i muscoli ritratti: “Hai bisogno di qualcosa, Macaria?” “No. Sto chiamando i miei due figli”. Una preghiera profonda e vitale nella notte della malattia e nel digiuno dell’assenza fisica delle sue due piccole creature. Gesù, negli ultimi istanti della sua vita, invocava, come figlio, la presenza di Dio, aggrappandosi al rapporto fattosi improvvisamente dubbio.
Macaria, come mamma, annaspa a tentoni per abbracciare una volta ancora il ricordo di chi ha generato in un rapporto di amore e che ormai sfugge ai suoi occhi e allo slancio delle sue braccia.
...
Abbiamo condiviso riflessioni sulla preghiera in questo periodo, partendo dall’esperienza concreta della nostra casa e dalla coscienza della povertà della nostra preghiera personale.
Ci siamo poi interrogati su un’espressione del Vangelo: “Certe malattie/ostacoli (la parola demoni non ci piace e non ci convince) si superano solo con la preghiera e il digiuno”. Dobbiamo riconoscere che è stato l’amico Gianluca che ha lanciato nella nostra piccola comunità la sfida del digiuno ricordando che tante delle famiglie che abbiamo attorno non sempre hanno di che mangiare.
Macaria non riusciva ad ingerire alimenti (solo un po’ di frutta o qualche cucchiaiata di zuppa boliviana), e la divorava una sete soffocante. Il digiuno per lei era espressione di rifiuto in un corpo ridotto al nulla: una scelta obbligata dalla malattia.
E così, guardandoci attorno, dentro le pareti di casa, abbiamo compreso in questo periodo che il digiuno può diventare una scelta necessaria e indispensabile: una opzione profonda di libertà e intelligenza.
Nel mondo dell’autosufficienza, in cui sembra che in ogni istante tutto è raggiungibile perché le nostre decisioni sono assolute e prioritarie, non questionabili, la scelta volontaria e cosciente del digiuno può accompagnare una volontà matura, può svuotarci di tante sicurezze a cui ci aggrappiamo inutilmente. E non c’è bisogno che nessuno ci veda o che nessuno lo sappia, come dice il Vangelo.
Comprendiamo che digiuno e preghiera possono essere luce di decisioni mature e responsabili in un mondo in sfacelo, possono rappresentare una spiraglio di infinito nella mente spesso offuscata dalla malattia dell’opulenza e dell’egoismo, possono liberarci dagli inciampi artificiali dell’autosufficienza.
Abbiamo bisogno di superare insieme scogli e pareti che ci separano da un rapporto sano, purificato, guarito con chi ci sta accanto, smontando sicurezze personali acquisite spesso con superbia. E ci avverte Gesù che molte di queste sicurezze sono religiose, spirituali!!!
Di fronte alla barriera della nostra intelligenza sconfitta, di fronte all’impossibilità spirituale di fare miracoli, Gesù ingenuamente indica il cammino della preghiera e del digiuno. È la strada intrapresa da Gesù e forse è la strada degli sconfitti lungo la storia dell’umanità.
Allora acquista senso l’invocazione di Macaria nella notte: “No, sto chiamando i miei due figli”, che ormai risuona con chiarezza nei corridoi esistenziali della nostra casa. Sul digiuno del corpo germoglia la preghiera liberante della mente che ci riporta con chiarezza ai rapporti essenziali.
Riprendiamo un attimo il breve testo del Vangelo di Matteo, nel capitolo 17,19-21, sostituendo alcune espressioni. Questo capitolo inizia con l’esperienza della Trasfigurazione del Signore su un alto monte in presenza di Pietro, Giacomo e Giovanni. Mentre discendono dal monte, si avvicina un papà che si inginocchia davanti a Gesù e invoca il suo aiuto perché ha un figlio epilettico e nessuno l’ha potuto guarire, neppure i suoi discepoli. Gesù prima si arrabbia, poi manda a chiamare quel bimbo e lo guarisce. “Allora i discepoli si avvicinarono a Gesù in disparte e gli domandarono: "Perché noi non siamo stati capaci di guarirlo?". Egli rispose: Questa razza di malattie non si sana se non con la preghiera e il digiuno".
Neanche noi siamo stati capaci di guarire Macaria. Il cammino della storia dell’umanità è lungo, come la discesa dall’alto monte della Trasfigurazione che ci riporta alla nudità del nostro fallimento di fronte a bambini e mamme ammalate.
Allora anche noi ci avviciniamo in disparte e in silenzio, e ci inginocchiamo per cercare una spiegazione. E ingenuamente ci afferiamo alle risposte inaspettate di chi sta consumando la sua vita. Come scriveva Sandra, una candela che si consuma diffonde la sua luce attorno.
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